Pollina, il paese dalla natura benevola
Pollina. Volti soliti scrutano il nuovo con compiaciuta parvenza e, al riparo di quello spettacolo di pareti rocciose che, segnate da un tempo che fu, porgono l’istoriata guancia a una sinuosa danza di luci e di ombre, confabulano di cose a noi sconosciute e a un chiacchiericcio, per lo più sommesso, si lasciano andare.
Eccoli i pollinesi, gente sorridente e sincera, oltremodo altruista e animata da una profonda e quasi commovente affezione per il proprio territorio.
E come potremmo contraddirli. Pollina è un grazioso centro delle Madonie, colmo di fascino e di silenzi, di bellezza e di viuzze deliziose e accoglienti.
Pollina è una donna di nero vestita che placida dorme sotto il sole cocente, è il vociare appena dietro l’angolo di gentili signore che sulle scale davanti casa allegramente si raccontano e poi ti invitano a tornare, è un anziano pastore che con il suo gregge non può più girovagare, ma che dal pizzo roccioso su cui il paese con vigore si inerpica i suoi ricordi attentamente ripercorre e dalla delicatezza del paesaggio si lascia ammaliare.
Pollina ci rapisce e ci esorta a guardare lontano, a fare un passo indietro, a scrutare in un passato fatto di storia e di tradizioni, di leggende e di vite vissute, di ricchezze come piovute dal cielo e di semplice e naturale convivialità.
Le origini di Pollina rimangono tuttora oscure. Secondo alcuni storici, tra cui Diodoro Siculo, Pollina sarebbe l’antica Apollonia, una città che i Greci fondarono intorno al sec. VIII a. c. e consacrarono al dio Apollo.
Tuttavia di tutto questo non rimane alcuna traccia tangibile. Più sicure sono, invece, le notizie riguardanti la presenza degli Arabi nella cittadina intorno al IX sec. d. c., come pure del successivo arrivo dei Normanni.
Nel XII sec. Pollina passò alla Diocesi di Cefalù e a partire dal XIV sec. alla potente famiglia dei Ventimiglia.
Possenti e confortanti dovevano apparire le mura del castello medievale, edificato certamente prima del XIII sec. e dalla cui sommità effettuò le sue osservazioni astronomiche Francesco Maurolico, che, tra il 1494 e il 1575, fu ospite del Marchese Giovanni II Ventimiglia.
Ai piedi dell’antica torre quadrata si estende in perfetto accordo con l’ambiente circostante un suggestivo anfiteatro che, realizzato nel 1978 su progetto dell’architetto Antonio Foscari, si caratterizza per l’incantevole colore delle sue pietre che alla luce intensa del tramonto si tingono di rosa.
Foto di Giulio Gelardi
Ma è dalla natura benevola, dai suoi doni fruttuosi, dai suoi rimedi unici e quasi miracolosi, che Pollina ricava la sua autentica ricchezza.
Ancora oggi, infatti, nelle verdi campagne tra Pollina e Castelbuono pochi esperti frassinicoltori producono con grande devozione e assoluto rispetto per la natura la cosiddetta manna, la dolce e candida linfa che nelle calde e secche giornate d’estate stilla dal tronco del frassino opportunamente e sapientemente intaccato.
Il succo del frassino, che altro non è che un dolcificante spesso impiegato nell’industria dolciaria e, per le sue proprietà terapeutiche e benefiche, in quella farmaceutica e cosmetica, è al principio amaro e di colore scuro e solo a contatto con l’aria diviene bianco e, colando, solidifica sul tronco. A seconda della sua qualità la manna viene, in seguito, diversamente raccolta ed esposta in appositi contenitori al sole.
Per saperne di più siamo andati a trovare Giulio Gelardi, un uomo determinato, onesto, innamorato della sua terra e dedito con tutto se stesso alla raccolta e alla salvaguardia di questo prodigio della natura. Giulio ci racconta di essere cresciuto in una famiglia di frassinicoltori e di avere scelto di recuperare e di continuare il lavoro dei genitori per non rischiare che questo raro patrimonio naturale e culturale si perdesse del tutto nell’oblio.
Ci parla quindi della manna e di come nei secoli questa sia stata variamente percepita e definita e di quanto sia complicato e al contempo coinvolgente effettuarne la corretta coltura. Operazione per nulla immediata e meccanica, la coltivazione della manna richiede che tra il frassinicoltore e i suoi frassini si instauri un rapporto speciale e privilegiato, una sorta di intima collaborazione che si può realizzare solo negli anni attraverso un lungo e assiduo apprendistato.
Quello del frassinicoltore è un mestiere fatto di competenze tramandate e di altre pazientemente acquisite sul campo, di impercettibili e fragili equilibri da riconoscere e abilmente mantenere, di passione e gratitudine per quello che si ottiene e la natura generosamente dispone.
Giulio nel suo libro “Vivere di Manna. All’ombra dell’albero della vita” arriva ad affermare che “la manna non esiste in natura” perché il frassino senza l’intervento dell’uomo non saprebbe come produrla. L’uomo non è un coltivatore passivo e inetto “e allora la manna non è un frutto del frassino, ma il risultato di una sorta di simbiosi tra l’uomo e il frassino. Di più, è il risultato dell’interazione tra l’uomo, il frassino e l’ambiente (il suolo, il cielo, la temperatura, il vento)”.
Un altro antico mestiere che a Pollina continua a sopravvivere nonostante i radicali e inevitabili cambiamenti che il paese ha subito nel tempo è quello del cestaio e per poterne vedere ancora uno all’opera ci siamo rivolti a Giuseppe Cassataro, un uomo altruista e capace, che, detto “il rosso” per via del colore dei suoi capelli, gestisce un bar e nel tempo libero esegue con massima cura e maestria cesti in vimini.
Giuseppe ci mostra senza farcelo dire due volte tutti i suoi cesti e ci spiega che per la realizzazione degli stessi, indipendentemente dalla forma e dalla funzione cui sono destinati, occorre avere a disposizione molto tempo ed essere muniti di estrema calma e ovviamente di tanta passione. Giuseppe è un lavoratore infaticabile e con sorprendente precisione riesce a realizzare qualsiasi cosa, la sua inventiva non ha limiti e ce lo dimostra immediatamente immergendosi in quel lavorio continuo e appagante che nel tempo si protrae senza distinzione tra passato e presente e che nel risultato finale trova la sua motivazione e la compensazione di ogni fatica.
Nel corso della nostra permanenza a Pollina non potevamo non soffermarci nella rilassante e gradevole frazione di Finale, nella quale, tra l’altro, in seguito al terremoto che colpì il comune nel 1993, la maggior parte dei pollinesi attualmente vive.
Qui abbiamo conosciuto e incontrato il professore Giacomo Di Marco, pittore e scultore tra i più noti e stimati del territorio, il quale ci ha affettuosamente accolto nel suo studio ricolmo di arnesi e di colori e ci ha parlato della sua formazione, dei suoi esordi, della sua passione per l’insegnamento e ovviamente delle sue opere, in particolare dei suoi eloquenti dipinti e dei nostalgici paesaggi in essi raffigurati.
Il professore Di Marco ci spiega che ad animare i suoi quadri sono sovente scorci e vicoli di Pollina e di altri paesi della Sicilia in cui di rado la presenza umana è ravvisabile.
Il suo intento è, infatti, quello di denunciarne il graduale abbandono e sollecitarne di conseguenza il solerte recupero. Un amore incondizionato lega il professore Di Marco a questi luoghi ameni della Sicilia che, sebbene tramortiti dal sonno del progressivo isolamento, sono carichi di quella magia eletta che solo la memoria della storia sa imprimere alla sostanziale intensità di un’emozione.
Artista abile e completo è anche Rosario Macaluso, che, originario di Pollina, vive e opera a Finale ormai da diverso tempo.
Rosario ci ha gentilmente accolto nella propria casa e prima che ce ne rendessimo conto ci ha letteralmente catapultato in un mondo stimolante e misterioso, un mondo in cui ciò che non si vede è quasi più significativo di qualsiasi evidenza, in cui ogni cosa, anche la meno pregnante, può divenire un’occasione imperdibile per andare oltre i limiti della materia e valicare i solchi della razionalità. Rosario non predilige una forma d’arte in particolare e tende a usare i materiali più diversi.
Per l’artista, infatti, l’opera d’arte è qualcosa che già esiste in natura, bisogna solo riconoscerla e da questa, con qualsiasi mezzo, ricavarla.
Per Rosario, insomma, ciò che conta non è quello che c’è fuori, ma quello che da dentro, attraverso quello che c’è fuori, si manifesta agli occhi di chi guarda.
Foto di Nina Kalinovà
Per finire vogliamo parlarvi di Nina Kalinovà, una fotografa slovacca che da molti anni vive e svolge la sua professione a Finale di Pollina.
Qui Nina si trasferì in seguito a quello che doveva essere un breve viaggio in Sicilia, ma che inaspettatamente si rivelò qualcosa di ben più importante, qualcosa di avvincente e di molto simile all’inizio di una nuova vita.
Nel corso di questo viaggio Nina scoprì l’isola e se ne innamorò.
Così cominciò a indagarne ogni aspetto, ogni più atavica atmosfera, restituendo della Sicilia, delle sue tradizioni, del suo caloroso popolo, un’immagine romantica e, al contempo, estremamente vivida, un’immagine in cui scorci, gesti e sguardi rivivono come consacrati da chi per la prima volta con stupore li osserva e, nelle innumerevoli possibilità di uno scatto, ne diviene complice.
Negli ultimi anni Nina ha anche sviluppato diversi progetti fotografici in cui con straordinaria sensibilità e risolutezza affronta temi e problematiche sociali.
Per lei, infatti, la fotografia deve servire a conoscere e indagare della realtà non solo gli aspetti più attraenti e gioviali, ma anche e soprattutto quelli che appaiono più complessi e, talvolta, critici. Da qui la sua predilezione per la fotografia in bianco e nero, per un linguaggio, cioè, essenziale e diretto, un linguaggio che, privo di qualsiasi sovrastruttura, le consente di scavare, di andare in profondità e, con una maggiore consapevolezza, affrontare del mondo circostante qualsiasi barriera, bruttura o ingiustizia.
Per farci comprendere il suo modo di fotografare e di intendere la fotografia Nina ci cita una frase di un noto fotoreporter canadese, Ted Grant, il quale con grande lucidità affermò che “quando si fotografano persone a colori, si fotografano i loro vestiti. Ma quando si fotografano persone in bianco e nero, si fotografano le loro anime”.
Si ringraziano per la cortese collaborazione Giulio Gelardi, Giuseppe Cassataro, Giacomo Di Marco, Rosario Macaluso e Nina Kalinovà.
Ringraziamo, inoltre, per la gentile disponibilità Franco Raimondo, Responsabile del Museo della Manna.
Genny Ferro.