Piana degli Albanesi: storia, integrazione e antiche tradizioni
Isola Felice. Quella di Piana degli Albanesi è la storia di una sofferta diaspora, dello spostamento necessario e accorato di frotte di albanesi che, intorno alla fine del XV sec., dinanzi alla preoccupante avanzata dei Turchi Ottomani nella Penisola Balcanica, non poterono che rinunciare con grande rammarico alla benamata madrepatria e mettersi in marcia verso più sicuri e accoglienti lidi.
Venuto a mancare, nel 1468, Giorgio Castriota Skanderbeg, che per oltre un ventennio, a partire dal 1444, lottò strenuamente insieme al suo popolo contro i continui e perniciosi tentativi di conquista del Principato d’Albania da parte dell’Impero Turco – Ottomano, molti albanesi, refrattari a qualsiasi compromesso e animati da un saldo attaccamento alla propria storia, alle proprie e identitarie consuetudini e credenze, scelsero, infatti, di andare via e di cercare rifugio nella vicina e ospitale Italia.
Ad essere maggiormente interessate dall’arrivo dei profughi albanesi furono le regioni dell’Italia meridionale, tra cui evidentemente la Sicilia, che, progressivamente e secondo modalità differenti, assistettero nel corso degli anni a venire alla fondazione di autentiche e ben strutturate comunità albanesi.
Precisamente al 1488 risale la stipula dei Capitoli di fondazione di Piana degli Albanesi con i quali i primi esuli arbëreshë, giunti nell’isola tra il 1479 e il 1481 su navi veneziane, ottennero di potersi stanziare ai piedi di una collinetta (Sheshi) nei pressi dell’imponente monte Pizzuta, in un territorio amministrato dalla Mensa Arcivescovile di Monreale e che si affacciava su una vasta area pianeggiante, dalla quale con ogni probabilità lo stesso paese derivò il nome.
I Capitoli regolarono diritti e doveri dei nuovi arrivati, che, in cambio della concessione di certi privilegi, tra cui innanzitutto quello di continuare a osservare il rito bizantino-greco durante le funzioni sacre, imprescindibile veicolo di coesione sociale e culturale, si impegnarono a popolare e lavorare dietro il pagamento di un canone un territorio da tempo abbandonato e non più cespite.
I fondatori, per evitare eventuali contaminazioni linguistiche e culturali derivanti dal naturale contatto con le popolazioni autoctone, provvidero, inoltre, a limitare, almeno inizialmente, per mezzo di appositi provvedimenti inclusi sempre nei suddetti Capitoli, il libero e incontrollato accesso dei forestieri alla vita della comunità, contribuendo così a mantenere invariato tra i rispettivi membri il ricordo delle proprie origini e avite tradizioni.
Non meno importante per la salvaguardia dell’identità dei pianesi si rivelò il ruolo degli intellettuali, soprattutto, ma non solo, di formazione ecclesiastica, che, uniti dalla comune esigenza di difendere e rafforzare la consapevolezza che gli arbëreshë avevano di sé e delle proprie peculiarità, si impegnarono, sia in prima persona sia attraverso la costituzione di specifiche istituzioni, a recuperare e a trasmettere il rito, la lingua, gli usi e i costumi albanesi.
Splendidi e decisamente degni di nota sono, per esempio, i costumi della festa che le donne albanesi ancora oggi indossano in particolari momenti dell’anno, specialmente nel corso delle celebrazioni festive, suscitando l’ammirazione unanime dei presenti. E per saperne di più siamo andati a trovare Giovanna Schirò, che, da parecchi anni ormai, insieme alla collega Plescia Angioletta, si occupa, oltre che del restauro di paramenti sacri, della creazione e del restauro di costumi tradizionali.
Giovanna, dopo averci gentilmente accolto nella sua casa, ci ha parlato del suo prezioso lavoro e di quanta dedizione e pazienza occorrano per svolgerlo.
La particolarità di questi abiti sta, infatti, nella sontuosità ed eleganza dei loro ricami dai motivi fitomorfi che, realizzati in oro su delicate stoffe di seta, richiedono precisione, buona volontà e non poca perizia. L’abito da sposa è tra i costumi tradizionali quello più ricco e ricercato. Indossato il giorno del matrimonio, ma anche durante la pasqua, senza però determinate componenti, quali le maniche o la Keza, si passa ancora oggi di madre in figlia o, se questo non fosse possibile, si realizza ex novo con grandi sacrifici, ma altrettante soddisfazioni, da parte delle famiglie arbëreshe.
La stessa Giovanna ci spiega che agli abiti vengono di solito accostati raffinati e simbolici gioielli, che, come i primi, rappresentano un patrimonio di inestimabile valore per la salvaguardia e la trasmissione della cultura arbëreshe.
Così, per farci un’idea più chiara sulla storia e sulla realizzazione di questi pregiati monili abbiamo chiesto delucidazioni al maestro orafo Graziano Lucito che, facente parte di una famiglia di orafi palermitani da molti anni attiva a Piana degli Albanesi, ci ha spiegato che i gioielli originariamente portati dai profughi albanesi erano in realtà molto diversi da quelli attuali, in quanto piuttosto poveri, e che col tempo la gioielleria arbëreshe ha inevitabilmente assorbito gli stilemi dell’arte orafa siciliana.
Merito indiscusso degli arbëreshë è stato quello di avere conservato, malgrado i successivi dettami della moda, tali preziosi e di averne tramandato l’uso fino ai nostri giorni. Lodevoli esempi di questi tradizionali manufatti sono la classica fede nuziale, il domanti, un incantevole anello con diamanti taglio rosa, i pindajet, gli orecchini a cinque penducoli, il kriqja e kurçetës, un girocollo in velluto con pendente, e, infine, il rosario o rrusari, una collana a doppio filo di pietre di granata chiusa in più punti da sfere di filigrana con pendente di forma variabile. Un discorso a parte merita il cosiddetto brezi, una pesante cintura d’argento caratterizzata da varie maglie unite al centro da una piastra scolpita in rilievo e raffigurante soggetti di carattere religioso, che, come si evince dallo stesso nome, derivato dall’albanese brez, che significa stirpe, progenie, si usava regalare alla sposa poco prima delle nozze al fine di augurarle una vita coniugale felice e feconda.
Graziano Lucito, come pure tutta la sua famiglia, si adopera, quindi, da sempre a beneficio della comunità arbëreshe, contribuendo col proprio talento e contro ogni aspettativa alla sopravvivenza delle sue uniche e ammalianti tradizioni.
Sinceramente legato alle proprie origini ci appare anche Spiridione Marino, eccellente iconografo, oltre che abile scultore, pittore e mosaicista, che, dopo averci parlato del suo impegnativo percorso di artista versatile ed entusiasta, ci ha delicatamente svelato la natura delle sue amate e venerabili icone, guidandoci nella comprensione di un mondo a noi per lo più sconosciuto in cui materia e spiritualità, lungi dal configurarsi come due realtà distinte e contrapposte, si ritrovano a convivere in armonioso accordo in queste opere di evidente bellezza e luminosa sacralità.
L’icona non è una pura e semplice raffigurazione della divinità, non è un comune dipinto, l’icona è la divinità stessa, è insieme rappresentazione e essenza dell’invisibile.
Tutto nell’icona rimanda al mondo ultraterreno, ogni cosa, dal supporto ai colori, dai soggetti alle scritte, è investita da un’aura di meravigliosa e profonda spiritualità. Perfino la sua realizzazione è accompagnata dalle preghiere del suo esecutore che con l’appropriato stato d’animo trasferisce sulla tavola l’immagine divinamente ispirata.
Rinomato artista arbëreshe è anche Sebastiano Renda che abbiamo avuto il piacere di conoscere e di cui abbiamo immediatamente ammirato le originali e avveniristiche sculture che, ottenute per mezzo del fantasioso e audace riciclo di pezzi meccanici in disuso, che adeguatamente assemblati, finiscono per assumere sembianze umane e animali, non possono non sollecitare la nostra immaginazione, esulandoci dal momento presente e portandoci con un balzo repentino della mente in una dimensione stupefacente, degna dei più arditi scenari filmici.
Una delle opere più rappresentative dello stile e della visione personale dell’artista è indubbiamente Metal Jazz, un simpatico umanoide con insolite parti meccaniche al posto degli organi vitali, che il suo lungimirante artefice ha pensato e realizzato come paradigma eccelso di futuri e avvincenti traguardi.
Diverso è invece il significato delle opere che lo stesso artista ha realizzato per la commemorazione di quell’infausto avvenimento della storia di Piana degli Albanesi che ebbe luogo il 1° maggio del 1947, quando, nei pressi di Portella della Ginestra, il bandito Salvatore Giuliano, dietro ordini di non chiari mandanti, sparò contro un folto gruppo di contadini inermi che in quel luogo si erano riuniti per la consueta festa del lavoro, dando luogo a quella che è stata successivamente definita la prima strage di stato.
Per finire vogliamo parlarvi di Nicola Petta, titolare dell’Extrabar, che, nato nel 1954, quando il padre lo aprì, avviando così l’attività di famiglia, è oggi uno dei bar più conosciuti e frequentati di Piana degli Albanesi non solo per la professionalità e la disponibilità del personale, ma soprattutto per la prelibatezza dei suoi prodotti.
Tra questi ultimi un posto di primo piano spetta senza ombra di dubbio al rinomato cannolo, che realizzato esattamente come si faceva una volta, in maniera del tutto artigianale e con prodotti freschi e genuini, è diventato un must per i siciliani e un prodotto di prima scelta per i buongustai di tutto il mondo. Autentica meraviglia e dolce letizia per il palato, il cannolo di Piana degli Albanesi, con la sua fragrante scorza e la vellutata leggerezza della sua ricotta, è certamente una di quelle delizie che andrebbero gustate almeno una volta nella vita.
Piana degli Albanesi è insomma un comune singolare e a dir poco affascinante che sicuramente si contraddistingue per le straordinarie vicende che ne hanno determinato la formazione, ma ancor di più per la determinazione e il garbato riserbo con cui i suoi abitanti hanno nel tempo conservato e onorato il legame con la madrepatria, dando vita, come giustamente riporta Mario Giacomarra nel suo omonimo libro, a una vera e propria “isola nell’isola”, a una mirabile fucina di forze endogene che pur nel rispetto dell’ambiente e della cultura locali hanno fatto di Piana degli Albanesi una delle comunità arbëreshë più floride e influenti dell’isola.
Si ringraziano per la gentile collaborazione Giovanna Schirò, Plescia Angioletta, Graziano Lucito, Spiridione Marino, Sebastiano Renda e Nicola Petta.
Fotografie di Genny Ferro e Fulvio Ferro.
Genny Ferro