Baarìa: culla di sensibili talenti e centenarie tradizioni.
Bagheria non si vede, non si palesa, si nasconde, timida e un po’ bambina, sotto la coltre pesante e concreta del presente, quel presente che tutto muta, che tutto o quasi adombra, ma che invano tenta di eludere il passato, perché il passato si sottrae alle fauci del tempo che passa e con forza si aggrappa, allo stesso modo delle pale di fico d’india, ai resti ruvidi ed allusivi di un balcone ormai senza ringhiera.
Il passato è ovunque a Bagheria e dagli angoli più insperati ci sussurra le sue dolci nenie e ci introduce alla bellezza eccelsa dei luoghi che negli anni, privi di qualsivoglia consapevolezza, lo hanno accolto e inevitabilmente determinato.
Il passato si mostra nostalgico e, talvolta, inatteso nelle strade principali, tra i segni febbrili di una comoda e invadente modernità, nelle mostruose sembianze di Villa Palagonia o in quelle, fulcro di vera bellezza e di prorompente austerità, di Villa Cattolica, nella piazza antistante la storica Madrice, che ogni giorno, al mattino, si sveglia radiosa e, ricolma di senili memorie, si compiace, beata, nel riscoprirsi sempre la stessa, nel sapore semplice e piacevolmente invitante del cibo e delle specialità locali, nella voce della tradizione e nelle più intime e minute manifestazioni dell’arte e della cultura di questa gravida città.
Sebbene il pianeggiante territorio su cui oggi sorge Bagheria sia stato traversato e variamente frequentato, come attestato dal ritrovamento di diversi reperti archeologici nelle zone confinanti, sin dall’VIII sec. a. c., la storia della città – ci conferma Giuseppe Martorana nel suo esaustivo libro intitolato, per l’appunto, “Bagheria”, è indubbiamente recente e strettamente connessa con quella, non meno apprezzabile, delle sue numerose e affascinanti ville.
Prima della realizzazione di queste ultime il territorio era, infatti, popolato solo dai gestori delle diverse masserie colà presenti e dai coltivatori da essi impiegati al fine di lavorare e rendere produttive le proprietà ad essi affidate.
La nascita di un primo autentico nucleo abitativo risalirebbe al 1658, quando Giuseppe Branciforti, Conte di Raccuja, sinceramente deluso per via della sua mancata candidatura al conteso trono di Sicilia, decise di trasferirsi in campagna, lontano dalla corte palermitana e al riparo da qualsiasi interesse mondano. Fece quindi costruire, nel luogo dove prima sorgeva una masseria, il suo palazzo, oggi Villa Butera, una grandiosa costruzione sulla cui torre occidentale, a dimostrazione del suo profondo rammarico, l’aristocratico proprietario fece incidere, indignato, la nota frase “ o’ corte a dio!”.
Sull’esempio del Branciforti anche altre famiglie aristocratiche siciliane scelsero ben presto di erigere le loro imponenti dimore nelle terre di Bagheria, impiegando per la realizzazione e per il conseguente mantenimento delle medesime parecchi lavoratori, tra cui veri e propri professionisti, che, ingaggiati per periodi spesso piuttosto lunghi, accettarono di risiedere in piccoli alloggi che si trovavano nei pressi, appunto, delle ville. Furono questi i “primi abitanti di Bagheria”.
Da quel momento Bagheria conobbe una fiorente crescita, divenne bella e madre generosa, culla eletta di sensibili talenti e di centenarie tradizioni.
Mestiere meraviglioso e fortunatamente sopravvissuto al sopraggiungere dell’impassibile progresso è, per esempio, quello del pittore di carretti, che, nato dall’esigenza dei carrettieri di sottrarre all’usura del tempo, tramite appositi rivestimenti, i propri mezzi di trasporto e, quindi, almeno in origine, come lavoro complementare a quello, ne è diventato oggi fondamentale testimonianza.
Il lavoro del carrettiere, un tempo necessario per la buona resa di molti altri, è, infatti, del tutto scomparso e il carretto da comune strumento di lavoro si è tramutato in preziosa opera d’arte. Ma di tutto questo siamo andati a parlare con un vero esperto, un maestro abile e solerte, che, cresciuto in una delle più note e stimate famiglie bagheresi di pittori di carretti, ha inevitabilmente ereditato i segreti di questo, ormai raro, mestiere e ne ha fatto il naturale e sacrosanto fondamento della sua vita.
Stiamo parlando di Michele Ducato e della sua unica e preziosa arte, che, appartata e silenziosa, quotidianamente si esplica in quel luogo ameno, amabilmente senza tempo e ai margini tra sogno e realtà, che è la sua bottega.
Michele con la sua garbata gentilezza ci ha immediatamente accolto e introdotto in quel romantico affastellarsi di carretti e di parti funzionali degli stessi, di colori, di pennelli e dei più svariati incartamenti, che, per l’armoniosa casualità del loro accomodamento, inevitabilmente ci colpiscono e ci trasmettono il ricordo di una vita di costante e appassionata dedizione.
Michele, dopo averci parlato della storia del carretto e della sua decorazione, ci ha mostrato con quanta perizia vadano eseguiti questi lavori, che incarnazione del soffio creativo dell’artefice a lavoro, non mancano di imprimere del loro incanto tutto ciò che, inerte, li circonda.
Ulteriore caratteristica dei carrettieri e importante testimonianza della cultura e delle usanze del popolo siciliano sono, inoltre, i canti che questi infaticabili lavoratori usavano intonare nel corso dei loro viaggi e, soprattutto, nei meritati momenti di riposo, quando, stanchi e affamati, si fermavano nei fondaci e con gli altri carrettieri condividevano momenti di gioviale e sonora competizione.
Così ci ha riferito Giovanni Di Salvo, giovane cantore che dal nonno carrettiere ha ereditato la capacità di cantare alla carrettiera e che con grande orgoglio ancora adesso porta avanti e coltiva la tradizione di famiglia. Giovanni ci ha spiegato, altresì, che l’uso dei carrettieri di portare la mano all’orecchio durante l’esecuzione dei loro canti deriverebbe non solo dall’esigenza degli stessi di riuscire, isolandosi dal pubblico, ad ascoltarsi, ma anche dalla loro consuetudine, durante i vari spostamenti, di appoggiarsi al carretto per cantare. Infine, ci ha fatto ascoltare alcuni di questi canti, per lo più di contenuto amoroso ed eseguiti nella forma metrica dello strambotto, facendoci partecipi di un modo di vivere la vita estraneo al nostro, fatto di desideri semplici, di fatica e di sincero attaccamento al proprio lavoro e alla propria storia.
Ma Bagheria è anche sinonimo di buon cibo e prodotto tipico della città, conosciuto in Sicilia e nel mondo, è in particolare lo sfincione.
Ci siamo, quindi, recati presso uno dei più antichi e rinomati forni della città, il cui proprietario, Maurizio Valenti, ha fatto del suo caratteristico sfincione il suo cavallo di battaglia e il suo autentico orgoglio.
Maurizio ci ha detto che il suo sfincione è così tanto apprezzato perché preparato con ingredienti, poveri, ma genuini, quali tuma fresca, cipolla, acciughe e olio extravergine d’oliva, e che si differenzia, per esempio, da quello palermitano per l’impasto molto più alto e soffice e per la cottura della cipolla, che, privata del tutto, della salsa, rimane bianca. Ci ha raccontato, inoltre, che un tempo lo sfincione si consumava solamente nel periodo delle feste natalizie e che le donne avevano l’abitudine di recarsi ai forni con il loro condimento e di fare a gara, una volta sul posto, a chi realizzava lo sfincione più buono.
Per distinguere il proprio sfincione dagli altri aggiungevano un nuovo ingrediente, come patate, olive, noci e così via. E quando lo sfincione era pronto il fornaio avvertiva la donna che lo aveva preparato chiamando, invece del cognome della stessa, il nome dell’ingrediente precedentemente aggiunto.
Depositaria di antiche e impareggiabili tradizioni è anche la vicina e graziosa borgata marinara di Aspra, dove con grande piacere siamo andati a trovare Michelangelo Balistreri che, insieme al fratello Girolamo, ha dato vita al noto Museo dell’Acciuga e delle Arti Marinare e che, grazie alla collaborazione di una squadra operosa di volontari, gestisce con passione ed efficienza, rivolgendosi non soltanto agli adulti, ma anche e soprattutto, per mezzo di uno spazio e di attività ad essi appositamente dedicati, ai bambini.
Guida simpatica e d’eccezione, Michelangelo Balistreri ci ha accompagnato tra leggende, poesie e canzoni all’interno di questo museo, le cui sale, diverse e stimolanti, sono gremite di fotografie e oggetti d’epoca, imbarcazioni, strumenti relativi alla pesca e alla lavorazione e conservazione delle acciughe, che, pazientemente e variamente raccolti negli anni, consentono al visitatore di ripercorrere la storia di questo piccolo pesce e dell’antica arte della salagione dello stesso dalle origini fino ai nostri giorni. In una sala è possibile, inoltre, ammirare le opere di vari autori che attraverso la rivalutazione di parti di vecchie barche in disuso hanno voluto raccontare la storia della Sicilia e dei suoi illustri protagonisti, mentre un’altra, ancora in allestimento, è dedicata al noto film Baarìa di Giuseppe Tornatore, di cui accoglie e custodisce gli elementi scenici utilizzati durante le riprese.
Per concludere vogliamo parlarvi di un altro importante e indispensabile museo, quello creato e amorevolmente gestito da Pietro Piraino Papoff, antiquario e stimato ceroplasta, e dalle sue figlie, Laila e Lucilla. Ci riferiamo al Museo del Giocattolo e delle Cere Pietro Piraino, che attualmente ubicato all’interno della splendida ed elegante Certosa di Villa Butera, contiene una fornita e curiosa collezione di giocattoli di epoche e paesi diversi e di realistiche e sorprendenti sculture in cera, alcune delle quali riprendono quelle in origine esposte nell’antecedente Museo delle Cere che Ercole Michele Branciforti fece realizzare alla fine del XVIII sec. proprio nella stessa Certosa e che poi, purtroppo, furono trafugate. Pietro Piraino ci ha parlato dell’origine del Museo, della sua infanzia priva di giocattoli e di come crescendo, per onorare una promessa fatta a se stesso, cominciò ad acquistare e a riparare vecchi giocattoli che oggi trovano posto proprio in questo magico museo e che costituiscono una fondamentale porta d’accesso al favoloso mondo dell’infanzia e alla sua evoluzione.
In particolare, Pietro Piraino ci ha parlato di un giocattolo molto speciale, una pistola di legno, che, proveniente dal campo di sterminio di Mathausen, in Austria, ci dimostra come un semplice giocattolo possa racchiudere la storia di un bambino, di una famiglia, di un popolo, dell’intera umanità. Un semplice e povero giocattolo può regalare, anche in condizioni di inconcepibile dolore, un sorriso e può aiutare tanti altri bambini a gioire dei propri doni e a comprendere che la vita degli altri ha un valore e a dare alla propria il giusto significato.
Genny Ferro
Si ringraziano per la gentile collaborazione Michele Ducato, Giovanni Di Salvo, Maurizio Valenti, Michelangelo Balistreri e Pietro Piraino Papoff.
Ringraziamo, inoltre, per la gentile disponibilità Lorenzo Rizzo.
Fotografie di Genny Ferro e Chris Catanese.